Quid iuris nel caso di parziale contrasto tra il contenuto del contratto preliminare e quello del successivo contratto definitivo? Spunti storici, dottrinali e giurisprudenziali.

05.04.2018 18:30

Quid iuris nel caso di parziale contrasto tra il contenuto del contratto preliminare e quello del successivo contratto definitivo? Spunti storici, dottrinali e giurisprudenziali.

 

A cura del dott. Luca Giovacchini.

 

Il preliminare (chiamato anche promessa di contratto, precontratto oppure dal punto di vista processuale “compromesso”) costituisce uno degli aspetti della formazione progressiva, rectius della produzione degli effetti contrattuali, in quanto come noto, gli stessi non si producono tutti immediatamente (proprio poiché tale è la volontà delle parti).

Piuttosto, se ne produce uno solo, che è di indole essenzialmente formale e strumentale: l'obbligazione di natura strettamente personale a stipulare tra le parti un futuro altro contratto, provvisto di contenuto ed effetti sostanziali (economici), chiamato definitivo.1

Ma andiamo per gradi.

Per quanto ci è concesso sapere, dagli antichi scritti romanistici malgrado sussista un termine correlativo latino denominato pactum de contraendo, si conosce poco o nulla circa la figura del contratto preliminare. Anche il termine contractus, astratto da contrahere è quasi sconosciuto agli scrittori non giuristi e anche tra gli stessi se ne fa un uso raro, almeno fino a Pomponio e Gaio. Il tutto ha, naturalmente, una logica spiegazione. Nella prassi quotidiana dell'epoca, infatti, l'interesse e/o il bene giuridicamente tutelato poteva essere invero soddisfatto dall'istituto della promessa di vendita posta in essere con le forme della stipulatio, al quale le parti potevano tutelarsi dall’eventuale rifiuto della controparte di stipulare il contratto definitivo apponendo alla promessa di vendita una clausola penale (c.d. stipulatio pœnæ), destinata ad aver efficacia in caso di inadempimento.
L'imperatore Giustiniano disciplinò ulteriormente la promessa di vendita in una costituzione del 528 d.C., prescrivendo che in tutti i contratti di vendita, nei quali le parti, dopo aver raggiunto un accordo verbale, avessero statuito di redigere l’atto per iscritto, la forma dovesse intendersi requisito necessario
ad substantiam, mentre nel Digesto, che riporta un frammento del giurista Paolo, si ammise espressamente la possibilità di una promessa di mutuo.

Per tali motivi è dunque possibile affermare che la dicitura pactum de contraendo possa essere maggiormente connessa all'esperienza medioevale-germanica piuttosto che a quella romanistica, anche e soprattutto in relazione allo scarso interesse (di natura economica) dimostrato dalle fonti più “classiche”.

In ogni caso, ciò non toglie che praticamente dagli albori i giuristi si siano interrogati sulla funzione di un contratto, fonte dell'obbligazione di stipulare una successiva vendita. E, da sempre, la risposta oscilla tra la negazione dell'ammissibilità ed il pieno accoglimento. Del resto sempre è esistita la contrapposizione tra preliminare per cui “dicunt quod adhuc efficaciter se obligare nolint2, cosicché nessuna obbligazione poteva derivarne e per altri, invece, in tale contratto emergeva la “intentio certa sese obligandi3, giuridicamente vincolante.

Così avvenne già nel diritto comune europeo, fondato sulla scissione tra titulus adquirendi, cioè il contratto di vendita, e modus adquirendi, cioè l'atto traslativo da cui lo stesso deriva, che pose le basi per quella che può essere definita quale genesi della teoria generale del preliminare per come è inteso in senso moderno4, che determinò il lento declino della nota “promessa di vendita”, di derivazione romanistico-francese, il quale come detto racchiudeva in sé una storia pluricentenaria.5 Così ancora avvenne nel sistema italiano retto dal codice del 1865 che si trovò nel mezzo al guado. Non aveva l'equiparazione tra promessa di vendita e vendita definitiva e nemmeno la formale scissione tra titulus e modus ma la dottrina, seguita da diverse pronunce della Corte di Cassazione, aveva però accolto la categoria del contratto preliminare, teorizzando l'ammissibilità della sentenza costitutiva, idonea a produrre gli effetti del contratto definitivo non concluso per inadempimento del preliminare. Il codice del 1942 recepisce, in pratica, quanto sopra esposto con gli artt. 1351 s.s. c.c.

La piccola digressione storico-comparatisca potrà adesso tornare utile per rispondere al quesito iniziale e fornire nuovi spunti di riflessione in merito al caso della totale o parziale discordanza tra quanto pattuito dalle parti nella scrittura preliminare e quanto previsto invece nel successivo atto di trasferimento definitivo.

Sulla questione appena richiamata sono essenzialmente individuabili nel dibattito scientifico due filoni teorici principali: quello classico -ed oggi maggioritario- al quale aderisce anche la giurisprudenza predominante, fondato sulla regola dell'assorbimento del preliminare nel contratto definitivo e quello cd. dell'intangibilità del preliminare.

Secondo la prima tesi, andrebbe individuata una doppia causa, ovvero una di natura solutoria (o di adempimento) del preliminare e l'altra di carattere negoziale, che si correla all'inquadramento del “definitivo” come un atto di autonomia idoneo a determinare l'acquisto ed il trasferimento del diritto in esso contemplato; in sostanza il definitivo assorbirebbe (quasi) sempre il preliminare. Tale orientamento giurisprudenziale risente dell'impostazione tradizionale volta a relegare il contratto preliminare a mero pactum de contrahendo risulta invero in contrapposizione al diverso e minoritario orientamento che si fonda sul principio dell'intangibilità del preliminare.

Secondo tale linea interpretativa, questo andrebbe invece considerato quale unica fonte delle situazioni giuridiche considerate dalle parti e, quindi, il “definitivo“ rappresenterebbe unicamente atto solutorio dell'obbligazione derivante dal contratto preliminare. Sul punto autorevole dottrina ha avuto modo di sottolineare che “considerato anche che la tutela accordata al promittente acquirente in caso di difformità, oneri e vizi della cosa è, come detto, quella stessa dell'acquirente, che è già proprietario, l'obbligo che nasce a carico del promittemte alienante non è la stipula del definitivo in sé e per sé, ma quello di far conseguire, con esso o altrimenti, al promittente acquirente la proprietà immediata del bene, esente da vizi, salvo diversa volontà. Il contratto preliminare di vendita genera dunque non tanto l'obbligo di prestare il consenso, quanto di dare, con scissione del titulus dal modus a conferma della tesi della causa solutoria del definitivo stesso. Potrebbe anzi perfino sostenersi che il preliminare di compravendita è una vendita obbligatoria in cui l'obbligo è quello di far acquistare al promittente acquirente la proprietà, con interpretazione estensiva dell'art. 1476 n. 2.”6

Tale orientamento è stato recepito da una sentenza di merito che ha recentemente sancito il principio per cui non sarebbe corretto attribuire prevalenza automatica, bensì occorrerebbe ricercare caso per caso la reale voluntas delle parti, anche in base ai comportamenti tenuti successivamente alla conclusione del preliminare (come, ad es., il pagamento del prezzo conformemente all'ammontare convenuto nella scrittura privata di promessa di vendita, anziché del minor prezzo dichiarato, per evidenti e consuete finalità di risparmio fiscale, nel contratto definitivo). Da ciò, prosegue la sentenza, “sarebbe possibile desumere - secondo quanto previsto dall'art. 1362, comma 2, c.c. - che le parti stesse abbiano inteso conferire al contratto preliminare - e non al contratto definitivo - il rilievo di effettiva fonte degli obblighi assunti”.7

Sul medesimo indirizzo appare anche una recente sentenza di legittimità che, in parte, sembrerebbe condividere l'orientamento sopra individuato ammettendo per la prima volta la facoltà per le parti di provare in concreto - sia pure, nel caso di beni immobili, con il solo mezzo dello scritto coevo alla stipulazione del definitivo - la sopravvivenza a quest'ultimo del regolamento pattizio contenuto nel preliminare.8

1 Sul punto cfr. F. Messineo, voce “Contratto preliminare”, in Enc. Dir. X, pag. 166 ss., Varese, 1962.

2 Schwicheldt, De pacto future contractus praeparatorio, Tubinga, 1668.

3 Petermann e Schmidius, De valore pactorum quibus praeparantur contractus, Lipsia, 1730.

4 Degenkolb, Begriff des Vorvertrages, in A.C.P., 1887, 1 ss. (già in Festschrift Fritz) 1871.

5 La promessa valeva vendita, se vi era accordo sulla cosa e sul prezzo, cfr. art. 1589 c.c. fra.

6 cfr. F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, 2015.

7 cfr. Tribunale Saluzzo, 7/7/2009, Cass. 8486/1987.

 

8 Cfr. Cass. 20451/2017.